Tappa gastronomica nel laboratorio di pasticceria sarda Dal 1955 Fois, dove Michele, Grazia e la giovane Rachele Ledda preparano i dolci tipici sardi come tzia Jubanedda ha loro insegnato.
Oltre sessant’anni di storia e una responsabilità: mantenere viva la tradizione dolciaria sarda seguendo le ricette mai scritte di tzia Jubanedda.
Conosco la pasticceria Dal 1955 Fois di Nuoro da ormai qualche anno. I loro dolci sono rinomati e questo luogo porta con sé un racconto così profondo che desideravo tanto visitarlo e conoscere di persona chi in questi anni ha saputo mantenere intatto il lavoro di una donna intraprendente e forte che ha contribuito a regalare valore a uno degli aspetti più identitari della gastronomia dell’isola: i dolci.
Ci sono stata qualche settimana fa e questo è il mio racconto.
Dal 1955 Fois: storia della pasticceria fondata da tzia Jubanedda
Nuoro, 1955. Giovanna Fois ha 23 anni, l’età giusta per quello che la società avrebbe probabilmente desiderato per lei: un marito e dei figli. Lei invece aveva idee ben chiare: aprire una pasticceria. Aveva imparato a fare dolci un po’ da sola e un po’ con altre persone di Nuoro. È qui che Giovanna Fois da vita alla pasticceria dal 1955 Fois, che al tempo era poco più di un piccolo laboratorio con forno a legna nel cortile della propria casa. Fu il padre a concederle di aprirlo. Jubanedda, come era chiamata dalle persone che la conoscevano, aveva solo 23 anni, ed era un raro ed esempio di imprenditoria femminile.
“Lei i dolci li faceva da sempre perché aveva un potere nelle mani: creava arte” mi racconta Michele Ledda, oggi titolare della pasticceria insieme a sua moglie Grazia, nipote della signora Jubanedda. La produzione era legata perlopiù alle feste, come poi lo era tutta la pasticceria anticamente. Erano le cerimonie religiose a guidare la produzione e tzia Jubanedda faceva tutto a mano.
Tzia in sardo significa zia. Zia, Jubanedda, lo è davvero, di Grazia, e prozia delle sue figlie Rachele e Giovanna Ledda. Ma tzia in lingua sarda è anche un modo educato per chiamare gli anziani. Ricordo che anche io, quando ero bambina, chiamavo zio o zia gli anziani del mio paese a cui ero legata. Creava un legame maggiore e di rispetto. “Sa zia” in sardo è un concetto che racchiude elementi storici, culturali e di protezione verso la terra sarda. Per questo, anche se non ho avuto il piacere di incontrare Jubanedda perché oggi le condizioni di salute non le permettono di essere attiva in laboratorio, anche io ho scelto di chiamarla tzia: per il concetto che racchiude e l’ammirazione che nutro per lei.
Negli anni ’70, tzia Jubanedda acquistò i primi macchinari. “Dopo i primi tempi in cui le persone erano stranite dal vedere una donna con la propria attività, la richiesta dei dolci aumentava sempre di più. Chiedevano anche diverse specialità, per cui le esigenze di produzione crescevano, come la necessità di avere un forno elettrico che sostituisse il forno a legna”.
Sentire Michele e Grazia raccontare Jubanedda fa comprendere quanto forte e allo stesso tempo amorevole fosse questa donna. La prima cosa che ho notato quando mi hanno concesso di entrare a casa loro è stato il forte concetto di famiglia che riempiva ogni spazio. Grazia, suo marito Michele e le figlie Rachele e Giovanna non solo raccontano con grande reverenza quella zia che ha lasciato loro un dono così importante, ma sembrano uniti tra loro da un filo invisibile che è più forte del concetto stesso di famiglia. Un filo tenuto da Jubanedda e dalla generosità che tutta la città di Nuoro le riconosce.
“Noi dobbiamo tanto a lei. Ci ha insegnato un mestiere e ci sentiamo responsabili delle conoscenze della tradizione dolciaria sarda che portiamo aventi” mi dice Grazia. Nel laboratorio entra prima sua madre e poi, nel 1989, lei e suo marito Michele. “I dolci di Jubanedda sono sempre stati un pezzo di me, anche quando non sapevo che sarebbero diventati il mio lavoro. Hanno accompagnato il matrimonio dei miei genitori, il mio battesimo, il mio matrimonio. È curioso notare quanto questo lavoro fosse scritto nella mia storia prima ancora di venire al mondo” ricorda lui.
Michele e Grazia hanno appreso da Jubanedda tutti i segreti della pasticceria nuorese e sarda, mantenendo la sua impronta e proponendo i dolci durante la loro stagionalità: casadinas per pasqua, pabassinos a novembre, origliette a carnevale. “Siamo legati alla nostra tradizione perché è così che siamo cresciuti. È ciò che abbiamo sempre visto, per cui non sarebbe naturale preparare per esempio i dolci con la sapa in piena estate”. Portavoci e maestri della tradizione di un’isola con una proposta dolciaria varia e ricca, Michele e Grazia oggi lavorano al laboratorio insieme alla loro giovanissima figlia Rachele, recentemente specializzatasi all’Alma. Accanto a loro anche la figlia maggiore Giovanna che segue invece la comunicazione social portando una bella spinta innovativa.
Chiedo loro se posso sbirciare il quaderno di ricette di Jubanedda. Mi immagino una copertina in pelle e dei fogli ingialliti che contengono tutto il loro lavoro. Scopro così che loro non hanno nessuna ricetta scritta perché tzia Jubanedda non le aveva. Mi chiedo come le ricordino e mi diconono che “è tutto nella nostra testa. Ma ogni tanto ci preoccupiamo e pensiamo che forse dovremmo cominciare ad annotare qualcosa” scherzano. Una tradizione oggi retta dal potere della mente e delle mani.
Quando sono stata loro ospite, l’accoglienza nuorese si è fatta sentire dal primo momento. Sono arrivata a casa loro la sera e ho avuto il piacere di cenare con i piatti preparati da Grazia (un risotto al cannonau e funghi così delizioso non lo mangiavo da tempo), con il vino aperto da Michele (un cannonau, ovviamente) e con le chiacchiere che a tavola, insieme a Rachele e Giovanna, mi hanno fatto vivere da vicino questa famiglia di pasticceri che sta dedicando la propria vita al mantenimento di una tradizione così importante.
Che privilegio fare questo lavoro, per me. Mi sento onorata di vivere pezzi di storia di una famiglia. Non è solo l’assaggio del prodotto, non è solo la sua preparazione, ma ho la fortuna di toccare con mano vite e storie, di renderle parte della mia anche solo per un giorno avvicinandomi in punta di piedi alla vita privata di chi crea cultura gastronomica.
Come si preparano i savoiardi sardi
Il mattino seguente, ho potuto assistere alla preparazione de su bistoccu, degli amaretti e del gattò di mandorle. Voglio raccontare il primo, il biscotto sardo, conosciuto anche come savoiardo. Un rituale quasi magico, dove ancora una volta ho visto non solo l’organizzazione di una piccola realtà familiare ma anche l’unione e l’armonia tra loro.
Sveglia alle 6 del mattino: la preparazione comincia abbastanza presto. Michele prepara il composto e lo gira con uno strumento antico: sas frunzas. È la prima volta che le vedo: sono dei bastoncini lunghi circa un metro e fatti in legno di olivastro, che servono per montare le uova. Ci vuole forza, perché il composto è denso e colloso. A seguire, Grazia e Rachele lo versano nelle sac a poche, dette bussieddas.
I savoiardi sardi sono un dolce antico. I miei ricordi di bambina sono quelli di merende in giardino con tè al limone e savoiardi.
“Qui sono i dolci più acquistati, li facciamo ogni giorno e la loro preparazione per noi è uno dei rituali a cui siamo più affezionati”. Osservo l’intera famiglia all’opera, mentre crea questi piccoli gioielli dolci: prima si crea la forma sopra delle tele apposite, poi si versa sopra lo zucchero al velo con un setaccio e infine si scuotono per levare lo zucchero in eccesso.
Ho anche scoperto che, quando la cottura è terminata, si può trovare quello che viene chiamata malu essiu, che significa “venuto male”. Non è altro che un savoiardo che non è esteticamente vendibile per difetti di cottura. Quando sono stata con loro ce n’è stato uno (e posso garantire che fosse un brutto ma buono). I savoiardi vengono controllati uno a uno e sistemati nelle box per la vendita.
“Non so se esista un dolce a cui siamo più affezionati, però su biscottu sicuramente di rappresenta, mi dice Grazia. Una delle soddisfazioni maggiori l’abbiamo avuta quando una signora non vedente, che consumava abitualmente il nostro savoiardo, ne aveva ricevuto in dono uno diverso. La figlia ci aveva confidato che lei se si era accorta della differenza. Per il nostro lavoro e l’impegno che impieghiamo per creare ogni dolce è un grande piacere sentire queste parole”.
La filosofia e la produzione della pasticceria Dal 1955 Fois
Stagionalità della proposta, artigianalità e alta qualità. Questi sono i tre valori che guidano l’intera produzione della pasticceria. Ogni preparazione rispetta il periodo in cui tradizionalmente veniva preparato, e ogni dolce rispecchia le antiche ricette.
Ciò che rende prezioso e unico questo piccolo laboratorio è l’autenticità rimasta inalterata nel tempo. I clienti entrano nella pasticceria e tutti si conoscono fra loro. Mi sembra di fare un tuffo agli inizi degli anni ’90, quando nelle botteghe del mio paese incontrarsi era una festa, ci si abbracciava e si era tutti sinceramente parte di una comunità. Questo è quello che ho percepito qui, dai racconti e dal via vai alla pasticceria di Michele, Grazia, Rachele e Giovanna.
Oggi tzia Jubanedda non ha più modo di essere accanto a loro in pasticceria ma la sua impronta è viva e nulla è cambiato rispetto al passato. La famiglia rimane l’elemento guida della pasticceria, e i loro dolci artigianali sono fatti a regola d’arte, portando avanti una tradizione sarda lunga secoli.
Lo consiglio perché…
Per l’arte di creare ancora i dolci come una volta, seguendo la stagionalità e utilizzando le migliori materie prime. Per il rispetto della tradizione e perché ogni dolce è parte di una storia più grande che racconta l’amore della famiglia Fois-Ledda per un mestiere con cui stanno tracciando la storia gastronomica dell’isola
Pasticceria Dal 1955 Fois
Via Malta 41, Nuoro
Tel: +39 0784 36037