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I piatti della tradizione sarda: sa tratalia

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I piatti della tradizione sarda: sa tratalia

Un tuffo nelle domeniche degli anni ’90 e nei racconti del passato

Il giorno del Signore iniziava alle 8.30. Doccia, colazione e vestito, quello della domenica. Andavano di moda quelli con le bretelle, da indossare con un maglione sotto e l’immancabile calzamaglia, tutto parte della discutibile bellezza degli abiti anni ‘90. Tutti ne siamo stati vittime. I miei mi mandavano in chiesa: d’altronde le tappe del catechismo andavano affrontate una per una. Finita la messa, con 500 lire in mano, si andava al bar. Obiettivo: le palline in gomma colorata che rimbalzavano. Ce le ho ancora, credo.

Poi di corsa a casa. Dalla strada lo sentivo già e mi metteva allegria: era il profumo del pranzo della domenica. Penetrava nelle narici ma, perlopiù, nell’anima, come una carezza leggera e amorevole di chi sa come darti serenità. A casa mia, non c’è mai stato il piatto ufficiale, ma diversi piatti, a seconda del periodo. Quindi non parlo di un profumo specifico, ma di un’atmosfera ricorrente e bramata. Mi piaceva che ci si riunisse, che tutti avessimo un compito, che ci si sedesse a mangiare insieme e che, d’inverno, il fuoco del camino creasse un legame. 

Mamma e papà ci cucinavano la carne e, se c’era sa tratalia, io mi incantavo a guardarla girare allo spiedo. L’ho sempre amata. Ero consapevole di cosa fosse, perché a casa il cibo non è mai stato un tabù o qualcosa da dover celare per poter essere mangiato. Ogni ingrediente portato in tavola era connesso con la tradizione sarda e familiare e tutti eravamo consapevoli della sua identità gastronomica, del suo valore e del significato.

Cos’è sa tratalia? Cuore, polmone, fegato e milza d’agnello, avvolti da una rete di grasso (sa nappa) e, infine, il suo intestino.

Arrivava in tavola dorata, calda, morbida dentro e croccante fuori. È uno di quei piatti che non solo rappresenta la tradizione della Sardegna, ma rappresenta la mia tradizione. Nasce come piatto per non buttare nessuna parte dell’agnello, una carne che le famiglie contadine non abbienti non potevano permettersi e che diventava eccezione durante il periodo natalizio e pasquale. Le storie delle persone del Sulcis con cui ho parlato mi raccontano che l’animale venisse acquistato vivo il sabato santo e ucciso dagli uomini adulti della famiglia. Tutto era prezioso, persino il sangue, con cui veniva preparato il sanguinaccio. Con le interiora, invece, si preparava sa tratalia, appunto. Nonostante si fosse ancora in Quaresima e la chiesa vietasse la carne fino alla domenica, tante famiglie lo mangiavano comunque il giorno stesso dell’uccisione dell’animale. I frigoriferi ancora non c’erano e l’agnello doveva essere cotto entro il lunedì. 

Era un privilegio averlo in tavola. Era condivisione e aggregazione.

Lo stesso sentimento che, ancora oggi, provo quando mangio sa tratalia, per me fortemente connesso ai pasti in famiglia e alla bellezza di riunirsi attorno a un tavolo.


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