A Loiri Porto San Paolo, a pochi Km da Olbia, Alessandro e Marco Mazzone di Cantine Animas hanno preso in mano l’azienda del padre e del nonno con l’obiettivo di fare cultura con il Vermentino di Gallura docg.
Creare per preservare, costruire per non dimenticare. La storia di Alessandro e Marco Mazzone delle Cantine Animas mi ha mostrato quanto il concetto di famiglia e il rispetto per essa possa essere il valore portante nella costruzione di un progetto improntato sull’autenticità che nasce a pochi km da Olbia, a Loiri Porto San Paolo.
Mi ha mostrato quanto la piena consapevolezza della propria identità possa diventare uno strumento per comprendere quale strada seguire per dare il giusto valore ai sacrifici di chi è venuto prima di loro e di chi di loro, oggi, parla con la fierezza e l’amore che solo il legame nonno-nipoti può realmente esprimere.
Animas è forse il nome più azzeccato che la famiglia Mazzone potesse scegliere per identificare il proprio progetto di narrazione territoriale attraverso il vino, perché nei tre giorni che ho avuto modo di trascorrere assieme a loro ciò che ho visto è stato unione, collaborazione e visione comune nel portare avanti un’idea di produzione vitivinicola che viene davvero dall’anima e, forse, in questa zona, si è col tempo un po’ persa a favore di una vinificazione e un gusto più facili e accessibili ai palati rilassati delle torride estati galluresi.
C’è però anche chi punta sulla selezione e sulla qualità per raccontare ciò che il Vermentino di Gallura è stato e vorrebbe essere.
Per portare su Sardegna Quanto Basta questa storia, quella delle Cantine Animas, mi sono immersa per tre giorni nella vita dei più giovani della famiglia Mazzone (Marco e Alessandro) che mi hanno accompagnata alla scoperta del loro territorio e della loro famiglia. Questo è il mio sguardo antropologico sulla loro vita, personale e professionale.
La famiglia Mazzone: storia di tre generazioni
Alessandro e Marco sono fratelli, 31 anni il primo e 29 il secondo. Sono nati a Loiri Porto San Paolo e sin da bambini la loro vita, un po’ per gioco e un po’ perché era il mestiere del loro papà e del loro nonno, l’hanno trascorsa tra i campi e i filari delle vigne da cui producevano vino sfuso.
I terreni sono nel cuore della Gallura, in una frazione di Olbia chiamata Berchideddu. Ciò che decreta il valore di un terreno non è, però, solo il livello di produttività e il riscontro economico. Spesso un luogo diventa prezioso perché intriso di ricordi e storie, a tratti belle e a tratti dolorose, ma che insieme delineano il percorso di una generazione. È il loro caso, il cui valore primario è sicuramente dato dal prodotto curato e ricercato che la famiglia Mazzone sta realizzando negli anni, ma anche dalla storia che hanno e dall’affetto che ne scaturisce. Cuore e anima accessibili solo a chi sa ascoltare.
Io ho avuto la grande fortuna di poterlo fare con le parole del signor Giuseppino Mazzone, oggi 91enne, nonno di Marco e Alessandro, da cui tutto è cominciato quando, seppur inconsapevole, ha tracciato negli anni ’40 la strada lavorativa per la sua famiglia.
Aveva 11 anni quando fu mandato a fare il servo pastore. Scalzo, solo, con poche vesti, la sua unica paga era un tozzo di pane. È proprio lui a raccontarmelo. “A 11 anni, ci pensa lei?”, mi dice. “Guardavo le pecore che non figliano e in mezzo c’erano 12 capre che avevano i capretti. Mi facevano dormire senza baracca e senza coperte perché bisognava proteggere i capretti. In quel periodo c’erano le ruberie perché eravamo in guerra. Una notte sono venuti e si sono portati via i capretti ma se volevano si portavano via anche me, non mi sono accorto di niente”.
Gli chiedo se avesse avuto paura: “Non ho avuto mai paura, ho imparato a non aver paura cominciando a lavorare in campagna. Però c’era la fame, nel ’44-’45 eravamo in guerra e io ero andato a fare il capraro. Per la fame, avevo abituato una capretta dandole un pezzettino di pane. La chiamavo e lei veniva. Mi sdraiavo e la succhiavo direttamente dalla mammella. Perché mica avevo la tazzina. Sono ricordi che non si possono dimenticare e che riflettono la vita misera che facevamo.”
Ascolto silenziosa le sue parole e fatico a trovarne di mie davanti alla fiera consapevolezza con cui mi racconta la sua storia bagnata di sacrifici immeritati e non richiesti per un ragazzino segnato per sempre da quei ricordi.
Il signor Giuseppe ha studiato fino alla terza elementare ma il suo lessico è colto, chiaro e ricco. Mi permetto di chiedergli il perché di questo linguaggio tanto forbito da portarlo anche a scrivere e recitare poesie: “Sono andato alle serali mentre vivevo a Torino” mi racconta. “Avevo 22 anni quando sono partito per fare il manovale, ma volevo anche studiare. Poi mi hanno assunto alla Fiat”.
Si ferma, guarda alla finestra e dopo un sospiro mi dice “Mi toccasse l’inferno da morto, io ci sono stato già”. È una delle tante poesie che ha scritto per tracciare nero su bianco il suo passato, perché nessuno dimentichi cosa abbia significato vivere quegli anni, quella vita, quello stato sociale. “Ho fatto sette anni di fonderia e avevamo un caposquadra piemontese che non poteva vedere i sardi. Stavo malissimo e ho preferito licenziarmi. Ma oggi, se glielo racconto, è perché ci sono ancora”. Mi ripeterà questa frase più volte durante la nostra chiacchierata, a sottolineare il senso di fatica oggi però ripagata dal poter essere testimone di quel periodo con un riscatto enorme: quello di una famiglia unita che lavora per ridare al Vermentino di Gallura la sua identità territoriale.
Durante il periodo in fabbrica, Giuseppe conosce Anna, oggi sua moglie, originaria del Veneto, che viveva a Torino e lavorava in una gioielleria. Non appena si dimette, lui comincia a lavorare come venditore di corredi da matrimonio e, dopo qualche anno, decide di tornare in Sardegna insieme a lei e al figlio di tre anni Davide, papà di Alessandro e Marco.
Gli chiedo quanto gli mancasse la Sardegna mentre era fuori. “Mi mancava così tanto che le ho dedicato una poesia. Mi mancava la terra e, quando sono tornato a Loiri, piano piano che guadagnavo quattro soldi acquistavo un pezzo di terreno. Mi sono fatto 33 ettari”.
Da lì il lavoro nei campi si è intrecciato anche con quello del lavoro nel bar di Loiri, di cui aveva acquistato la licenza e in cui lavorava sua moglie Anna: “Tutto quello che c’è oggi non l’ho fatto da solo. Abbiamo lavorato come bestie io e mia moglie e ci siamo sacrificati. Questa è la vita che ho fatto io. La vita è il tempo non sono in mano a noi. Devo aspettare il mio momento per dire addio a tutto ma sono grato all’esperienza del passato per avermi dato cultura. Non c’è altra lezione che possa darti il mondo se non quello che hai passato”.
Sono seduta davanti a lui e tutta la famiglia Mazzone sul divano del loro salotto. Li osservo silenziosa. Osservo soprattutto gli occhi di Marco e Alessandro che hanno sentito tante volte i racconti del nonno e di cui vanno orgogliosi perché sono le loro radici. Li osservo perché nell’atmosfera di quel salotto ci siamo tutti noi con storie diverse ma che apparteniamo alla stessa terra e per lei siamo rimasti. Guardo Davide che fino a ora è rimasto in silenzio e gli chiedo di raccontarmi il suo ruolo da tramite fra il padre e i figli, di come abbia unito passato e presente.
Il sardo, spesso, ed è stata anche la mia condizione, lascia per tornare, abbandona per reinnamorsi. È successo anche a Davide, che quando era adolescente non si rispecchiava in quello che era il lavoro del padre e pian piano se ne allontana per fare lavori da lui considerati, allora, più accettabili, socialmente e personalmente.
“Quando avevo 15-16-17 anni, non amavo questo lavoro. Non mi ci trovavo. All’epoca mio padre aveva anche dei maiali ma io non mi rivedevo nel suo passato. Avevo anche la ragazza e non volevo che mi vedesse dare da mangiare ai maiali, c’è stato un rifiuto totale per la terra”. Lo ascolto ed è inevitabile per me rivedermi in lui. C’è un tempo nella vita di un sardo in cui la terra e i confini col mare stringono, soffocano, abbattono. È come se l’identità che ci è stata cucita, a noi cresciuti in campagna, ci ponesse delle catene dentro le quali non ci riconosciamo. Accade spesso nel momento di maggiore inconsapevolezza, durante l’adolescenza, e si trasforma quasi sempre nel rinnegare le proprie radici.
Quando quelle catene ce le tolgono e l’isola ci lascia andare, metaforicamente o realmente, capiamo chi siamo. Guardandoci allo specchio vediamo il senso nei valori che ci sono stati trasmessi e li ritroviamo in quell’identità fino ad allora sfumata, in quelle radici che ci hanno destato una rabbia che il tempo ha trasformato in forza, consapevolezza e orgoglio.
È un percorso lento che si fa prima da soli, con la presa di coscienza di chi siamo e dove stiamo andando, e poi, indirettamente, con la famiglia, attraverso i valori che ci sono stati insegnati e che riesplodono con fierezza.
Per Davide la svolta è stata nel 2005. “Mio padre tornava distrutto e stanco, faceva tutto lui nei campi per cui voleva vendere tutto. Questo è stato ciò che mi ha aperto gli occhi. Gli chiesi il perché e a chi volesse vendere. Sai – mi dice – facciamo un discorso economico: non era un terreno ambito dal punto di vista commerciale, il valore era basso, per cui anche il costo sarebbe stato basso. Bisognava quasi regalarlo. Avevamo tre ettari di vigneto, non ci diventavi mica milionario, per cui per non affondare o smetti o cambi. Era arrivato il momento di cambiare”. Nel 2006 Davide va alla ricerca di quote e acquista altri sei ettari, iniziando a impiantare passando dai tre ai dieci ettari (ora sono tredici). Aveva 40 anni.
“Nell’’88 ho fatto il primo corso di sommelier. Oggi è semplice diventarlo, ci sono spesso corsi, ma allora era una cosa unica, era il primo corso in Gallura. Ho conosciuto persone che mi hanno portato a questo mondo e a migliorare giorno dopo giorno, finché anche Alessandro e Marco sono entrati in azienda”. Ed è proprio con Alessandro e Marco che nasce Animas ed è con loro che scopro il cuore del loro lavoro dalle vigne al vino.
Alessandro e Marco Mazzone: il nuovo volto delle Cantine Animas
Io e Alessandro arriviamo alle vigne intorno a mezzogiorno e Davide e Marco stanno impiantando delle barbatelle. Mentre mi mostra quella che è “casa” sua, gli chiedo come abbia sviluppato il desiderio di prendere in mano il progetto di famiglia e trasformarlo. Mi racconta che, non appena terminato con il diploma, si era trasferito a Venezia per studiare lingue orientali. Al tempo non era un degustatore di vino attento. Nelle vigne ci era cresciuto e i lavori li conosceva bene, ma creare un vino, farlo dandogli un’identità, era diverso.
È proprio la vita a Venezia che lo riavvicina alla sua terra. “Mi facevo spedire dalla mia famiglia le casse del mio vino”, mi dice. Un pacco da giù che, assaggio dopo assaggio, ricostruisce il filo che lo lega professionalmente alla sua famiglia e che lo porta a tornare a casa per evolvere accanto a suo fratello in un progetto vitivinicolo che restituisce valore alla fatica di decenni dei Mazzone.
Marco invece è laureato in archeologia all’Università di Sassari e quel senso di amore e attaccamento alla terra e alla propria cultura era già chiaro dalla sua scelta di studi. A chiamare davvero, però, sono state le sue vigne e quello che nel tempo hanno costruito suo nonno e poi suo padre.
I vini di Cantine Animas: Tenebras, Prima Lughe e Animas
Sono tre le etichette prodotte da Animas. Partiamo da Tenebras, un’Isola dei Nuraghi igt rosso, da Cannonau, Cabernet-Sauvignon e Merlot. Viene coltivato in un luogo tanto caro al nonno Giuseppe, nelle vigne Juanne Chijina e Padre Pio, così chiamato perché lui, devoto, ha creato un piccolo santuario. Siamo a Berchideddu, in un terreno a disfacimento granitico le cui vigne sono fra i 165 e i 220 m di altezza. Lo degustiamo assieme a cena ed è un vino corposo, avvolgente, armonico.
Continuiamo con Prima Lughe, che, per i suoi colori e i riflessi dorati è un omaggio alla prima luce del mattino. È un Cannonau rosato le cui vigne si trovano nel terreno Juanne Chijina a 220 metri sopra il livello del mare. È un vino con un bouquet olfattivo di fiori di pesco e mandorlo, con note di erbe aromatiche e frutta a polpa gialla, fresco e con un finale fruttato e avvolgente.
Terminiamo con Animas, che è davvero l’anima di questa cantina.
L’evoluzione del Vermentino di Gallura docg Animas
Entrare in cantina con Alessandro e Marco significa farsi guidare in un’esperienza dettata dalla cura che nel tempo hanno posto per la realizzazione dei loro vini ma è inevitabile che la vera anima di questo luogo sia il Vermentino di Gallura docg.
Quando si parla di lui, i loro occhi brillano di una passione che si legge in maniera chiara. Come un figlio, cresce e si evolve secondo il suo carattere e secondo l’impronta di Marco e Alessandro. Un’impronta che evolve e matura anno dopo anno.
Mi propongono di fare una verticale, partendo dal 2018 fino all’ultima annata, il 2020. È una giornata di pioggia per cui il tetto e le mura della cantina diventano il nostro rifugio. Ad accompagnare i loro vini, ci sono i formaggi di Antica Caresi. Di Pietro Ragaglia e del suo progetto caseario vi ho parlato in quest’articolo. Sono le storie di quei giovani che, con le loro produzioni attente e rispettose del territorio, raccontano e valorizzano la gastronomia isolana.
Apriamo la prima bottiglia. In quest’articolo ho deciso di raccontarle in ordine cronologico, ma la nostra degustazione è andata a ritroso, dalla 2020 alla 2018, in un crescendo di intensità, carattere, corpo e piacevolezza.
“La 18 è stata la nostra prima annata prodotta”, mi dicono. “L’abbiamo lavorata senza le tecnologie utilizzate per le annate successive, è stata pigiadiraspata e torchiata come un rosso. L’annata è stata particolarmente piovosa e l’uva è stata vendemmiata a metà settembre, come la ’19 e la ’20”.
Il colore è un giallo dorato quasi ambrato e al naso e in bocca ricorda sapori più dolci e mielosi rispetto alle altre pur mantenendo mineralità e tipicità. Ha una gradazione di 13.5%, più bassa rispetto alle altre per via della pioggia. È un viaggio in cui occorre chiudere gli occhi per immergersi nella pienezza gusto olfattiva di questo vino. Il suo colore, così vivo con riflessi oro, e il suo profumo inebriante, è ciò che si ritrova poi anche in bocca. Sorrido nel berlo, come quando le papille incontrano qualcosa di inaspettato. Mi stupisce perché un Vermentino di Gallura non mi ha mai regalato questa sensazione.
La ’19 è l’annata più potente delle 3. Un’annata dalle rese molto basse (40/50 quintali ad ettaro contro i 70/80 soliti) a causa di un forte vento freddo che ha danneggiato il vigneto a maggio. È stata la prima annata lavorata con attrezzatura moderne.
Il colore è un giallo paglierino carico tendente all’oro, in bocca e al naso la resa bassa si sente tantissimo, al naso ha sentori iodati e di frutta e fiori evoluti ma anche pietra focaia e idrocarburi.
In bocca è un’esplosione di mineralità e persistenza con una bella freschezza che regala equilibrio alla parte alcolica (14.5% alto verso i 15%) e ha il tipico finale amaro ammandorlato del vermentino di Gallura. È un vino balsamico, potente, vero. Un vino che non capita spesso di trovare.
Quando dico loro che le sue note mi emozionano e mi riportano a quelle rocce in Gallura, Alessandro mi dice “Noi non facciamo niente, rispettiamo il vitigno”. Non c’è finta modestia in quelle parole, ma la consapevolezza di star lavorando a un progetto che restituisce al vitigno della Gallura la sua identità. “Noi vogliamo fare cultura”, mi spiega. “Ci interessa lavorare come faceva nostro nonno. Dare valore alla fatica di aver creato e lasciato a noi questo patrimonio”. Sono parole che rispecchiano quel concetto di sardità fortemente legata alle generazioni che ci hanno preceduti. C’è gratitudine, attaccamento alle radici e desiderio di evolvere.
L’annata ’20 è un evoluzione della ’19, stesso procedimento di vendemmia e lavorazione e stesso periodo di vendemmia, l’unica differenza (oltre i cambiamenti dovuti all’annata) è che non è filtrata.
Rimane più elegante e leggermente meno alcolica della ’19, siamo sui 14.5% reali più che sui verso i 15%. Il colore è praticamente uguale, può variare qualcosa giusto per la non filtrazione ma si tratta di leggere sfumature.
Il filo conduttore in degustazione è simile, la differenza sostanziale è la sensazione di equilibrio che ti regala la ’20 rispetto alla ’19. Nella ’20 si riescono a cogliere molti più dettagli rispetto alla “grossolanità” della 19, per questa risulta più elegante e facilmente bevibile.
Tutte le annate affinano 7/8 mesi in acciaio e successivamente un anno in bottiglia prima di essere pronte per il pubblico.
In commercio è attualmente disponibile la 2020 e tra circa un mese/un mese e mezzo sarà disponibile anche la 2021.
Lo consiglio perché…
I vini, e soprattutto il Vermentino di Gallura, della Cantina Animas è un progetto volto a raccontare in maniera autentica il proprio territorio. Il valore del lavoro della famiglia Mazzone risiede nella ricerca della qualità volta a creare un dialogo con chi, da un vino, si aspetta di trovare il territorio nelle sue diverse sfumature. Animas è cultura del Vermentino di Gallura.
Cantine Animas
Tel: 345 587 6123