Perché in Sardegna il primo gennaio si preparava il grano cotto? Storia dell’antica usanza contadina che vedeva il consumo de su trigu cotu a capodanno.
In Sardegna, l’anno comincia con su trigu cotu. Il grano cotto del primo gennaio è un rito propiziatorio, fatto di tradizioni, calore, silenzi e benevolenza. È un’usanza antica, legata alla cultura contadina e simbolo di salute e prosperità.
Questa che sto per raccontare è la storia della famiglia di mia madre che, da un piccolo paese del Sulcis Iglesiente, ha portato con sé i suoi ricordi di bambina. Me li sono fatti raccontare per provare a vivere attraverso le sue parole quel passaggio da un anno all’altro, dove un gesto semplice assumeva un significato colmo di speranza.
Nonna cominciava a preparare il grano il 31 dicembre all’alba. Mia madre e mia zia lo pulivano, separandolo dalla pula e dai sassolini. Quella parte del procedimento spettava alle bambine, che con le loro piccole dita riuscivano a eliminare tutte le impurità. Lo consideravano un gioco. Un gioco a cui, però, i maschi, in quanto tali, non dovevano prendere parte. Era una cosa da femmine.
Una volta che il grano era completamente pulito, veniva lavato sfregandolo fra le mani e, dopodiché, nonna lo metteva in ammollo all’interno di una sciveddita colma d’acqua per almeno dodici ore.
A tarda sera, il grano veniva fatto bollire. Per capire quando fosse cotto, nonna ne controllava l’aspetto: quando riteneva si fosse gonfiato abbastanza, significava che era pronto. Assaggiarlo prima che il rito della preparazione si fosse concluso era un atto di sfida e, dunque, non era assolutamente permesso.
Accanto al caminetto, lei sistemava sa crobi, un recipiente concavo fatto di paglia. In alternativa, una scivedda. Al suo interno, metteva la pentola col grano, che veniva poi avvolta con paglia e una coperta calda, fino al mattino successivo.
La paglia aveva la funzione di preservare il calore; così, il grano poteva proseguire la sua cottura durante tutta la notte. In assenza della paglia, si poteva comunque utilizzare una o più coperte.
Il mattino successivo, su trigu cotu era la colazione. Tutta la famiglia doveva consumarlo. All’interno di una scodella, si versava un mestolo di grano e del latte di pecora caldo e chi lo desiderava poteva aggiungere miele o zucchero.
Dopo che tutti ne avevano mangiato, veniva dato un po’ di grano alle persone a cui si teneva di più e che nonna sapeva che, per qualsivoglia ragione, non lo avevano preparato.
Tutti dovevano mangiarne almeno un po’, come augurio di un anno felice e prospero: i componenti della casa, i parenti, i vicini e persino gli animali domestici e gli uccellini, a cui veniva gettato del grano nel cortile o sul tetto.
Mia madre viveva tutto questo come un rito magico. Infatti, nonna teneva moltissimo a questa tradizione ma, come per tanti altri eventi, spiegarli e raccontarli ai più piccoli non era permesso. O, forse, non lo sapeva nemmeno lei. “Si fari aicci poita deusu sempri fattu aicci”, ovvero si fa così perché l’abbiamo sempre fatto così.
Ho trascorso la fine dell’anno nel mio paese, nel Sulcis e, con mia madre, abbiamo voluto ripercorrere i momenti di quell’usanza a lei tanto cara e che oggi assume un valore nuovo anche per me: una storia che diventa anche la mia e un ricordo che si trasforma in tradizione da mantenere. Buon anno!
A proposito: nel Campidano, con quali parole, in passato, veniva fatto un augurio? “Saludi e trigu”, ovvero salute e grano.